ANTICHI ERRORI E NUOVE PROSPETTIVE PER IL WUSHU IN CINA

Zhang Jianying, professore presso la Facoltà di Educazione fisica della Huadong Normal University, nel corso di una sua conferenza dal titolo “Punti strategici per lo sviluppo delle arti marziali cinesi nella Nuova Era” ha espresso in modo analitico le sue considerazioni circa lo sviluppo del settore delle arti marziali in Cina a partire dai primi del ‘900, sottolineando errori passati ed indicando prospettive future.

Secondo l’analisi del prof. Zhang le politiche di sviluppo ed espansione delle arti marziali nazionali a partire dagli anni ’50 sono state da una parte inadeguate, poiché non ne hanno permesso un’espansione effettiva, dall’altra sono risultate addirittura errate, poiché hanno portato il Wushu cinese verso una direzione e una forma completamente diversa dall’originale. L’unica via di salvezza, secondo il prof. Zhang, così come secondo altri esperti del settore, è un ripensamento di tali politiche e un ritorno ad un’idea di arte marziale cinese dei primi anni ’30 del secolo scorso, sul modello del Guoshu di epoca repubblicana.

Il prof. Zhang afferma che ai giorni nostri possiamo vedere come le politiche sul Wushu non solo non hanno portato ai risultati sperati dal Governo, ma anche come gli errori strategici di tali politiche nel corso dei decenni passati hanno gettato le arti marziali cinesi in una condizione di inferiorità rispetto alle arti marziali nel mondo: il Wushu non ha ottenuto il riconoscimento come sport olimpico; il progetto di introdurre la pratica del Wushu nelle scuole del Paese è stato frenato o addirittura eliminato; i professionisti del settore e i diplomati esperti non trovano lavori adeguati alle loro capacità; le arti marziali tradizionali, che sono la base fondamentale di tutte le arti marziali cinesi, stanno attraversando un periodo di profonda crisi di credibilità (dal 2017 al 2020 molti articoli di esperti e amatori cinesi e stranieri hanno sollevato non pochi dubbi sull’efficacia e sul valore del Wushu tradizionale e ci si domanda se quella delle arti marziali tradizionali cinesi sia una cultura gloriosa o una vecchia cultura in declino). Quali sono le ragioni di questa crisi? Il prof. Zhang utilizza la metafora del “bottone sbagliato”: quando si indossa una camicia se si sbaglia ad abbottonare il primo bottone anche tutti gli altri risulteranno sbagliati.

Il prof. Zhang ritiene che il primo “bottone sbagliato” nello sviluppo del settore delle arti marziali in Cina è da rintracciare nelle politiche della metà del ventesimo secolo a cui sono poi seguiti a catena molti altri errori. Per comprendere meglio le ragioni di questa situazione occorre ripercorrere brevemente la storia e le politiche attuate a partire dall’inizio del ventesimo secolo.

  • Dopo la disfatta della rivolta dei boxer (1900), la corte Qing vieta la pratica delle arti marziali tra la gente comune, con conseguente perdita di molte tradizioni marziali.
  • L’imperatore Guangxu nel 1901 abolisce il sistema del Wuju (esame militare) per il reclutamento delle cariche per la difesa. Le arti marziali, considerate fino ad allora una “grande faccenda per lo Stato”, perdono il collegamento e i rapporti con il mondo militare.
    Durante i primi decenni del XX secolo molti intellettuali che avevano studiato in Giappone scoprono che le arti marziali giapponesi stanno vivendo un periodo di grande sviluppo e popolarità al contrario delle proprie. Questo perché in Giappone era stato intuito il particolare valore educativo delle arti marziali nella società. Per questo motivo alcuni riformisti di ritorno in Cina, in particolare Sun Yat Sen, rivolgono la loro attenzione sulle arti marziali nazionali, con l’intento di utilizzare anche il Wushu per salvare l’intera cultura del popolo cinese. 
    Nella metà degli anni ’20 Chiang Kai-Shek inizia a promuovere le arti marziali come mezzo per rinforzare il fisico e lo spirito della nazione. Nel 1928 il Governo fonda l’Accademia Centrale di Arti Marziali Nazionali allo scopo di promuovere e sviluppare la cultura tradizionale. Nei primi anni del periodo repubblicano la posizione del governo nei confronti delle arti marziali cinesi era molto precisa: occorreva “salvare la cultura per salvare l’intera popolazione”, “creare una base solida per la cultura ed educare lo spirito del popolo” e “rinforzare il corpo, educare lo spirito, salvare la cultura, risvegliare il popolo”. Sulla base di questo programma ideologico, i punti per lo sviluppo delle arti marziali erano molto chiari: concentrarsi sulle tecniche essenziali di attacco e difesa delle arti marziali e svilupparvi dei programmi per le competizioni. Ne sono un esempio le due edizioni del 1928 e del 1933 degli esami di Guoshu 国术, dove ci si concentrò principalmente sulla valutazione delle capacità tecniche reali piuttosto che sulle esecuzioni dei taolu. All’epoca si faceva molta attenzione nella distinzione di ciò che è “arte marziale” e ciò che è “esercizio ginnico”. Durante la sesta edizione della riunione nazionale degli sport tenuta a Shanghai nel 1935, ad esempio, fu organizzata una grandissima esibizione di Taijiquan con più di 3000 partecipanti. A quel tempo la si chiamò semplicemente “Taijicao” (ginnastica Taiji) e non “Taijiquan”, proprio per sottolineare la diversità della semplice esecuzione delle forme dal vero combattimento marziale (al contrario oggi si pensa che il Taijiquan sia solo esecuzione di forme e che non abbia nulla a che fare con il combattimento).
  • All’epoca quindi la posizione generale del Governo Nazionalista, così come quella dell’opinione pubblica, è quella di considerare il combattimento e la competizione il fulcro centrale delle arti marziali, ispirandosi all’atteggiamento assunto dal Giappone, dove le arti marziali nazionali venivano sviluppate in epoca moderna dando massima importanza al loro valore educativo, attraverso l’unione di due concetti basilari: “ritualità” e “competizione”.
  • A metà del XX secolo, con la proclamazione della nuova Cina (1949) l’immagine delle arti marziali tradizionali subisce un cambiamento progressivo. Sempre più diffusamente si considera il Wushu come un’espressione del vecchio mondo feudale fatto di violenza, aggressività e superstizione. Le arti marziali diventano quindi un obiettivo da correggere. Si darà più importanza al valore dell’allenamento fisico e alla creazione di forme di grande effetto estetico. Il prof. Zhang precisa tuttavia che storicamente in Cina sono sempre esistite due tipi di arti marziali: le arti marziali per la difesa ed il combattimento, che rappresentano il ramo tradizionale e principale del Wushu, e le arti dimostrative per l’intrattenimento. Data la nuova posizione del Governo, dopo gli anni ’50 viene data sempre più importanza a quest’ultimo ramo, diventando de facto quello principale. Dopo la Rivoluzione Culturale (1966-1976), si ritene che le arti marziali cinesi siano oramai senza futuro, poiché divenute poco più di una danza. Nei primi anni ’80 già si parla della imminente scomparsa delle arti marziali in Cina e del fatto che nel futuro i cinesi avrebbero dovuto impararle dagli stranieri. Nel 1981 Li Menghua, Direttore del Comitato dello Sport della R.P.C., si esprime in modo inequivocabile: “le arti marziali devono essere regolate da un programma sistematico per non incorrere più in nuovi errori”.
    Egli sostiene che il grande problema delle arti marziali cinesi sia la troppa varietà di stili e tecniche, che non permette uno sviluppo unico, ma lamenta anche la cattiva gestione da parte del Governo degli ultimi trent’anni. Egli propone anzitutto di avviare una riflessione profonda su come le arti marziali si siano evolute nella storia, interrogandosi sul vero valore storico del Wushu e su come questo valore sia arrivato fino all’epoca moderna. Occorre inoltre un’analisi profonda dei problemi sorti nella gestione dello sviluppo del Wushu. Bisogna capire quale direzione deve prendere il Wushu come attività sportiva e quale forma debba assumere per essere diffuso in Cina e nel mondo. Egli sostiene che “non si devono utilizzare metodi di altri programmi sportivi, non si deve ricalcare il modello occidentale per lo sviluppo degli sport, ma occorre creare progressivamente palestre, centri e società di Wushu e far sì che ogni scuola e ogni stile abbia le stesse opportunità di presentarsi al pubblico, in modo da far fiorire tutte le scuole”. I primi provvedimenti reali avvengono nel 1982 durante la Riunione nazionale per il lavoro sul Wushu. Durante il meeting si tenta di risolvere i problemi legati allo sviluppo delle arti marziali, delineando una nuova direzione e delle nuove linee guida.  Il responsabile della riunione, Zhao Shuangjin, afferma che quella riunione darà un nuovo impulso per la rinascita delle arti marziali in Cina. Occorre riportare seriamente il Wushu ad una posizione centrale, in qualità di tesoro culturale della Nazione.
    Dal 1983 al 1986 vengono raccolti da oltre 8000 esperti del settore e amatori più di 1000000 Yuan per sovvenzionare il lavoro di “ricerca e categorizzazione” degli stili tradizionali. Questa iniziativa permette di fare ordine nel caotico groviglio di tradizioni e scuole, ma ben presto il progetto viene abbandonato. Non solo la riforma delle arti marziali non ha nessuna attuazione pratica, ma il risultati del  lavoro di “ricerca e categorizzazione” vengono accantonati (solo adesso, dopo decenni di oblio, questi lavori stanno raccogliendo l’interesse di alcuni studiosi del settore).
  • Sul finire degli anni ’80 l’intento della Commissione per la Cultura fisica e lo Sport è quello di sviluppare l’aspetto agonistico delle arti marziali. In questo modo la gestione delle arti marziali accelera nella direzione del Wushu moderno da competizione (Taolu e Sanda), con l’obiettivo di portare le arti marziali cinesi all’interno degli sport olimpici.
    L’opinione degli esperti del settore non è completamente favorevole. Un comunicato del 7 aprile 1986 dell’agenzia di stampa Xinhua esprime un’idea completamente contraria alla tendenza del Governo: “Stiamo mortificando gli antenati, poiché l’eredità del Wushu tradizionale si sta erodendo senza sosta, ma stiamo mortificando anche le future generazioni, perché la tradizione delle arti marziali in Cina non è portata avanti dall’attuale generazione”
  • Con l’inizio degli anni 2000 si vuole tornare all’idea di utilizzare il Wushu per educare lo spirito della Nazione. Tuttavia ci si accorge presto che il progetto del  Wushu nelle scuole è molto difficile da portare avanti persino a livello basilare. Questo perché la maggior parte delle scuole (il 70% circa) si rifiuta di sviluppare programmi di arti marziali cinesi in favore, a volte, dell’introduzione del Taekwondo e altre tecniche straniere, molto più di moda tra i giovanissimi.

Risulta evidente come il cambio di orientamento ideologico a partire dagli anni ’50 del secolo scorso sia stato determinante per le scelte strategiche sullo sviluppo delle arti marziali cinesi. Secondo il prof. Zhang occorre tornare al punto di partenza e creare un nuovo programma per una strategia di sviluppo del Wushu nella nuova epoca attraverso due azioni fondamentali:

  1. Fare una riflessione storica per avere una direzione più precisa sulle strategie da intraprendere.
  2. Esaminare cosa succede nel mondo per avere una visione più ampia sullo sviluppo delle arti marziali e sport da combattimento negli altri paesi.

Facendo una semplice riflessione storica possiamo vedere come all’inizio del XX secolo l’ideologia alla base dello sviluppo delle arti marziali cinesi era quella di fare del Wushu una delle colonne portanti della Cultura nazionale. Il governo nazionalista, ricalcando il vicino Giappone, aveva il programma di “utilizzare le arti marziali per educare il Popolo ad uno spirito coraggioso e combattivo”. Lo scopo delle arti marziali quindi, all’inizio del secolo scorso, era quello di rinvigorire il corpo, educare lo spirito, salvare la cultura e far rifiorire la Nazione.

Il prof. Zhang si chiede se oggigiorno si debba tornare a questo punto di partenza e se si debba prendere il valore dell’educazione spirituale come base per lo sviluppo delle arti marziali.
Guardando cosa succede nel mondo, si osserva che paesi come il Giappone e la Corea del Sud hanno fatto del binomio ritualità + competizione il modello principale per lo sviluppo delle proprie arti marziali, senza allontanarsi dall’idea fondamentale dell’utilizzo pratico delle arti tradizionali.  Durante tutto il processo di sviluppo del XX secolo l’idea di base non è mai mutata in questi paesi. In Giappone, ad esempio, il modello educativo ha sempre dato molta importanza al valore delle arti marziali, in quanto discipline in grado di sviluppare forza di volontà e spirito competitivo. In Cina, al contrario, si è costruita una società che non sa più apprezzare il valore delle arti marziali del proprio paese.
In un articolo del maggio 2022 il prof. Zhang ha rintracciato quattro modalità di sviluppo delle arti marziali nel mondo, le prime due considerate “principali”, le seconde due “secondarie”:

  1. Modello del Pugilato, della Muay thai, del Sanda cinese o delle MMA. Queste discipline da competizione sono famose per la loro efficacia e la loro aggressività nel combattimento e vengono accolte unanimemente come discipline reali ed efficaci.
  2. Modello del Judo, del Kendo, del Taekwondo e del Karate. Queste discipline hanno come target principale i giovani, con l’obiettivo di sviluppare dei programmi e dei contenuti competitivi. Risultano molto diffuse e vengono accolte dalle scuole pubbliche perché si basano sulla formazione del carattere dei giovani, avendo così un reale valore educativo.
  3. Modello dell’Aikido in Giappon. Si pratica l’arte marziale tradizionale attraverso l’utilizzo reale delle tecniche, tuttavia non si usa il modello classico delle gare (combattimento sportivo o forme da competizione), ma si dimostrano le tecniche attraverso delle sequenze fisse di attacco e difesa.
  4. Modello del Wushu cinese. L’allenamento è finalizzato alla sola competizione di taolu (moderni e tradizionali), svuotando l’arte marziale di ogni contenuto tecnico originale ed enfatizzandone la componente artistico-estetica e la difficolta dell’esecuzione.

In Giappone e in Corea del Sud si è scelto di andare verso le strade intermedie (modello 3 e 4). Questo modello ha portato una grande fortuna alle arti marziali locali, poiché il numero dei praticanti è molto alto, così come la popolarità delle arti nazionali. In Cina invece si è andati contemporaneamente verso due direzioni opposte: da una parte si è sposato il primo modello con lo sviluppo degli sport da combattimento di stampo occidentale (modello 1), dall’altra si è andati verso lo sviluppo di circuiti per le competizioni di taolu (modello 4), creando uno scollamento tra arte marziale e combattimento. Tale scollamento ha portato nel tempo ad una situazione in cui le arti marziali tradizionali cedono progressivamente il passo a quelle estere (soprattutto MMA e Taekwondo), poiché non riescono a diffondersi, soprattutto tra i giovani, e non riescono ad essere credibili. Questo ha determinato un allontanamento progressivo dalle arti marziali tradizionali cinesi e una perdita di attenzione da parte del grande pubblico.

In Cina la maggior parte delle persone che pratica Wushu tradizionale ha più di quarant’anni, i giovani non si interessano alle arti marziali nazionali perché le considerano inferiori agli sport da combattimento occidentali; allo stesso tempo i giovanissimi non sono attratti dalle arti marziali cinesi perché le considerano meno allettanti e più caotiche rispetto alle arti marziali dei vicini giapponesi e coreani. 

Secondo Zhang occorre “riallacciare la camicia partendo dal primo bottone”, ossia ripensare le strategie di sviluppo del Wushu dall’inizio. Secondo lui la più alta strategia che si può mettere in atto oggi per la rinascita del Wushu è il ritorno al modello dei primi anni ’30 del secolo scorso. Ripensare le arti marziali nazionali non più come sport agonistici fine a sé stessi, ma come strumento utile al popolo per risvegliare lo spirito nazionale. Ricondurre le arti marziali cinesi alla dimensione originale di tecnica da difesa, riportandole all’utilizzo pratico e reale, e sviluppare da questa base dei programmi e dei contenuti competitivi e agonistici.

Secondo Zhang occorre porre al centro della riflessione il valore educativo delle arti marziali cinesi, enfatizzandone la loro capacità intrinseca di educare lo spirito alla risolutezza e all’autodeterminazione. Attraverso lo studio e la pratica di arti e discipline competitive per la difesa e la crescita personale, si può creare una struttura culturale solida e uno spirito nazionale forte.
La Cina deve tornare al punto di partenza per trovare un proprio modello di sviluppo strategico per le arti marziali, affinché possa portare il Wushu verso una nuova era di rinascita.

Articolo scritto dal Dott. E. Tobia, Maestro della scuola Longmen di Terni e facente parte dell’Associazione Longzhao del Maestro M. Zanetti.